Diario – Pagina 5

In questi giorni a Kathmandu sto avendo modo di riprendermi dalla lunga scalata, di rifletterci su e di iniziare a mettere su carta le avventure future.

Tra le attività che ho svolto, ho avuto anche modo di guardare le migliaia di fotografie che ho scattato con le tre macchine fotografiche che ho portato con me sulla montagna. Sulla pagina di diario precedente ho scritto riguardo l’ultima parte della scalata con le relative foto, ma in questa ho il piacere e il desiderio di mostrarvene una carrellata su tutta l’avventura. Questo perché lo trovo giusto nei vostri confronti, nei confronti di tutti voi che mi avete seguito e sostenuto per l’intera mia permanenza qui in Nepal.

Se ripenso oggi all’intera scalata mi sembra sia passata una vita da quei giorni freddi, duri ma estremamente emozionanti.

Porto nel cuore ogni istante passato lassù. Attimi lunghi un’eternità, ogni passo una pausa, inspiri a pieni polmoni ma l’ossigeno nell’aria è talmente rarefatto che sei costretto ad inspirare nuovamente a pieni polmoni. Il freddo che percepisci è maggiore rispetto al freddo reale e non solo per la presenza di vento forte, ma per la mancanza d’ossigeno. Il sangue diventa sempre più denso faticando quindi a circolare ed ecco che le estremità del corpo come dita, guance e naso iniziano ad accusare i primi problemi. Per autodifesa il corpo andrà a concentrare una maggior massa di sangue negli organi vitali, già messi ampiamente in difficoltà dalla prestazione alpinistica. Quando superi la quota di 7.500 metri in gergo alpinistico si dice che entri nella “Death Zone”, la Zona della Morte. Il corpo inizia lentamente a morire e più sali più veloce sarà il suo processo di deterioramento. Sei stanco, hai freddo, hai sonno, percepisci una stanchezza inverosimile, barcolli ma non ti vuoi fermare attratto da quella cima lassù, altissima, come fosse una calamita alla quale, oramai è impossibile resisterle.

In altissima quota fatichi ad alimentarti perché la nausea diventa una compagna d’avventura, ma sai che devi comunque mangiare per andare avanti quindi mandi giù cibi “high-tech” senza pensare al loro gusto perché a te interessa solo quella cima lassù, svettante verso il cielo. Non hai sete ma sai che devi bere comunque e l’unica cosa al mondo che non vorresti bere in quei momenti è acqua calda sporcata con buste di te e sali minerali ma l’unica cosa che “trovi” da bere lassù è acqua calda sporcata con te e sali minerali. Sogni mojito freschi, gin tonic profumati seduto sotto l’ombra di qualche palma caraibica, invece sei a 7.400 metri dentro una tendina piegata dalle forti raffiche di vento con 20 gradi sotto zero.

Tutto questo ha un nome ed il suo nome è “resilienza”.

Il futuro rimane fortunatamente ignoto, ma la certezza nel presente è che continuerò a realizzare i miei sogni. Una vita priva di sogni è una vita non vissuta, una vita senza realizzare i propri sogni è una vita vissuta a metà. Nel presente vi dico che in me c’è la volontà di tornare in altissima quota e se le cose andranno come dovranno andare, questo succederà per certo. In merito, sto già lavorando riguardo i prossimi ambiziosi progetti, alzerò ancora di più l’asticella dei miei limiti e continuerò a trasmettere tutte le emozioni direttamente dalle zone più remote ed estreme del Pianeta.

Questa più che una pagina di chiusura, vuole essere un “arrivederci”, semplicemente ringraziandovi con un immenso GRAZIE!

PS: ora vi devo lasciare perché, da oggi e per i prossimi dodici giorni sarò impegnato ad accompagnare attraverso le zone più affascinanti del Nepal, la donna più importante della mia vita: mia mamma!

 

DIARIO – PAGINA 4

Rileggendo l’ultima mia pagina di diario mi sono reso conto che di strada ne ho fatta in particolare in salita… prima però di riprendere a scrivere, voglio scusarmi con tutti voi per questa sorta di “latitanza” dovuta ai difficili e complicati collegamenti per aggiornare sito e i vari social network.

 

Mi trovavo al Campo Base quando tre miei contatti in Francia, Svizzera e USA mi comunicarono quanto segue: “Ciao Danilo, ti comunichiamo che la finestra utile per l’attacco alla cima del Manaslu è prevista tra la notte del 29 settembre e il 30. Troverai vento con raffiche sui 50-60km/h e temperature dai -23°C ai -30°C. Good luck!”

Preso atto di queste importanti informazioni e dopo essermi confrontato con alcuni sherpa presenti al BC, ho deciso di partire e risalire la montagna per la terza volta, puntando alla cima calcolata nella notte tra il 29 al 30 settembre.

 

Tensione, emozioni, incertezze, paure, tanta adrenalina… dopo aver preparato tutti i materiali necessari e dopo una lunga preghiera di fronte allo stupa, ho mosso i primi passi sulle pietraie di un BC quasi completamente innevato. Dopo nemmeno un’ora raggiungo il grande ghiacciaio del Manaslu, lasciando così la morena e rientrando per la terza volta nei “bianchi” e freddi silenzi verso Campo1. Un meteo variabile ma gradevole mi accompagna nelle prime ore di salita fino al raggiungimento di C1 dove avevo già piazzato una tenda con materiale importante al suo interno. Solo una volta raggiunto il campo ho avuto modo di constatare che le abbondanti nevicate dei giorni passati associate a forti raffiche di vento, avevano distrutto e completamente sepolto la mia tendina. Dopo un paio d’ore di lavoro sono riuscito ad estrarla dall’oltre metro e mezzo di neve. Constatata la completa rottura e quindi l’inutilizzo della tenda, ho preso la decisione di “infilarmi” all’interno di un’altra tenda “di fortuna” trovata in zona, passandoci la notte.

L’indomani, alle prime luci dell’alba, ho ripreso la marcia da Campo1 a 5.700mt. dirigendomi direttamente a Campo3 a 6.900mt. dove avrei (forse!!) ritrovato la mia seconda tenda con all’interno l’importante Himalayan Suit (tuta in piuma d’alta quota) con la quale avrei attaccato la vetta. Il tratto che separa C1 da C3 (passando per C2) è parecchio lungo, impegnativo con punti tecnici dove l’attenzione deve rimanere altissima.

Un cielo molto nuvoloso di colore grigio, un’alta percentuale di umidità e svariati fiocchi di neve che cadevano dal cielo, mi hanno reso questa parte di salita più impegnativa del previsto. Ho raggiunto C3 nel tardo pomeriggio del 28 settembre. Fortunatamente la mia tendina era ancora integra malgrado fosse semi sepolta dalla neve. L’ho liberata dopo oltre un’ora di lavoro con la pala e a quasi 7.000mt. credetemi che non è il massimo della semplicità.

 

Ricordo perfettamente il momento in cui, una volta all’interno, ho acceso il telefono satellitare e un sms importante del meteorologo francese mi informa che la ristretta finestra di meteo utile al tentativo di cima si è spostata di 24h in avanti quindi non sarebbe più stata la notte dal 29 al 30 settembre quella utile al tentativo di vetta bensì la notte dal 30 settembre al 1 ottobre. Un rapido confronto con gli altri esperti in Svizzera e USA hanno solo che confermato tale previsione. Messo il cuore in pace, ero intento a prepararmi la cena, quando ha iniziato ad alzarsi il vento trasformandosi in breve in una forte bufera di neve che, a raffiche molto intense, mi ha tenuto compagnia per tutta la notte costringendomi ad uscire più volte, armato di pala, per rimuovere la neve che sistematicamente si accumulava sulla tenda.

In mattinata, dopo aver consumato la colazione, smontato la tenda e caricato tutto nello zaino, accompagnato da un gran bel sole alto in cielo, sono partito alla volta di Campo4 a 7.400mt. di quota. In svariate ore di impegnativa salita ho raggiunto la “spalla” del Manaslu dov’è situato C4 e nel quale ho piazzato la mia tendina, ultimo avamposto prima dell’importante tentativo di vetta.

Salendo senza ossigeno supplementare, in autonomia e “dovendo” preferibilmente iniziare la discesa dalla cima entro e non oltre le prime ore del pomeriggio, ho deciso di partire da C4 alle 02:00am della notte stessa. Purtroppo il freddo intenso che mi aveva “attaccato” i piedi all’interno della tendina mi ha impedito di chiudere occhio, partendo così con un deficit da non sottovalutare affatto.

 

Un cielo costellato da stelle luminosissime, un vento sui 15km/h e un freddo intenso (punta minima verso l’alba di -32°C) mi hanno accompagnato per tutta la notte. Tratti con pendenze lievi si alternavano a ripidi pendii di neve dura e ghiacciata. L’unico senso di profondità nella notte nera come la pece, lo dava la mia luce frontale. Avevo oramai iniziato a perdere la sensibilità alle dita di piedi e mani quando, una flebile luce dall’estremo est della montagna iniziava a fare capolino. Guardo l’orologio, erano le 04:45am: l’alba di un nuovo giorno.

Malgrado la luce del sole fosse già presente da qualche ora, rimanevo in un cono d’ombra freddo e difficile da “mandare giù”. Ad un certo punto della salita, vicino agli 8.000mt. di quota, ero quasi sicuro di aver perso tutte le dita dei piedi da tanto freddo avevo e dalle svariate ore di mancanza di sensibilità nella parte. Ma mi trovavo ad un solo passo dal coronamento di un sogno, niente e nessuno mi avrebbe fatto tornare indietro a bocca asciutta. Puntavo alla vetta senza pensare ad altro. Ero concentrato sull’obiettivo più che in ogni altra cosa. Il meteo era dalla mia parte, con un cielo sgombro da nuvole, un sole accecante e un vento sui 20km/h. Piccozza e punte dei ramponi penetravano quasi meccanicamente l’ultimo grande muro di neve che porta sull’anticima. Come un martello pneumatico salivo, imperterrito, puntando sguardo, mente e cuore verso il cielo blu. Raggiunta l’anticima guardo la cima, dritta davanti a me. Qualche lacrima di gioia scende dai miei occhi bagnandomi la maschera e ghiacciandosi immediatamente. Avevo da poco superato la famigerata quota di 8.000 metri che per un alpinista è molto più di un semplice numero, molto più di una quota…

 

Riparto inflessibile puntando dritto alla cima. Non penso più alle ormai insensibili dita dei miei piedi, metto da parte anche le emozioni, non capisco più cosa mi passi per la testa in quei momenti so che raggiungo quel “cucuzzolo” di neve e ghiaccio che i locali chiamano “Manasa”, La Montagna dello Spirito. Guardo l’orologio, sono le 09:30am del 1 ottobre 2016 e nell’attimo di un sorriso realizzo di essere tutto solo a 8.163 metri… sono sul Manaslu!!

 

Davanti a me un “quadro” di inestimabile bellezza composto da un cielo blu cobalto come cornice, un orizzonte leggermente ricurvo e un un’infinità di cime più basse che si espandevano a perdita d’occhio come fossero radici. Gli istanti di vetta volarono via come aria. Di lì a poco la decisione di riprendere la marcia per la lunga discesa. Ero l’ultimo alpinista a lasciare la zona di vetta, con un meteo bello e stabile e in quasi totale assenza di vento, raggiungo nuovamente C4. Dopo un’ora di riposo all’interno della mia tendina, una stanchezza fisica e mentale fuori dal normale mi attacca ovunque. È il pomeriggio del 1 ottobre 2016 quando, smontato il campo e caricato il tutto all’interno dello zaino, inizio la discesa da C4 a C3 (dove andrò a passere la notte, scelta presa per motivi di sicurezza – meglio portarsi sui 7.000mt. o appena sotto che rimanere un’altra notte a C4, ai limiti della “zona della morte”).

Inizia a fare buio quando raggiungo C3 e finisco di montare la mia tendina. Esausto mangio qualcosa e mi metto a dormire. La mattina mi sveglio dentro una tenda semisepolta da un’abbondante nevicata notturna. Il cielo è bianco esattamente come il terreno. Sono l’unico a C3. Le grandi spedizioni commerciali se ne sono andate da due giorni. L’area è desolata, non tira un filo di vento e tutte le tracce di discesa sono sparite. Con calma smonto il campo, ricarico lo zaino che mi sembra pesare ogni istante di più e inizio la discesa in una quasi totale mancanza di energia.

 

Da subito mi rendo conto che sarà una discesa complicata, lunga e molto pericolosa per i seguenti motivi: le energie che mi sono rimaste sono vicine allo zero, la traccia di discesa non esiste più, buona parte delle corde fisse sono sepolte sotto la neve, ci sono 50cm di neve fresca al suolo, c’è white-out (visibilità non oltre i 10mt. in un bianco assoluto), mi muovo in una zona molto crepacciata e non c’è nessun altro alpinista lungo la via. In breve capisco di trovarmi nel mezzo di un gran casino.

Raggiungo Campo2 a 6.400mt. spossato e privo di energie con la consapevolezza di essermela giocata più volte muovendomi “sulle uova”. A C2 non c’è più alcuna tenda, l’intero campo è libero, desolato, solitario. Mi siedo sulla neve, sfinito. Il meteo continua a peggiorare. Mi stendo completamente. Mi addormento senza accorgermene fin che una voce lontana mi dice semplicemente che ormai è finita, sono arrivato al capolinea di questa mia splendida vita. Di colpo riapro gli occhi. Sono quasi completamente ricoperto dalla neve, non sento più le mani, sono stanco, ma non voglio morire. Una scintilla riaccende il mio cuore e mi fa rialzare. La testa gira, ho sete, mangio la neve anche se so che dovrei evitare di farlo. Riprendo una discesa scomposta fino a che mi risiedo sulla neve umida e fredda. Mi tolgo lo zaino, estraggo il telefono satellitare e chiamo Mauro, il migliore amico che mai vorrebbe ricevere una telefonata nella quale gli espongo le problematiche facendogli nettamente capire che con molta probabilità quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo sentiti. Di lì a breve ho ripreso la discesa affrontando la parte tecnica che collega C2 a C1. Consapevole che le possibilità di sopravvivenza erano ormai ridotte al minimo, ho tirato fuori il meglio che poteva essere rimasto in me, con la concentrazione sempre al 100%, con una visibilità ai minimi, con una buona parte di corde fisse ormai sepolte sotto svariati centimetri di neve, dopo un susseguirsi continuo di passaggi molto esposti e di barcollanti “camminate” su scalette di alluminio rese totalmente instabili dal mutamento del ghiaccio, nel tardo pomeriggio sono riuscito a raggiungere Campo1 a 5.700mt. In un istante la tensione cade di colpo e la stanchezza estrema riprende il suo posto.

 

Inizio la discesa da C1 quando appaiono le prime luci del tramonto. Barcollo, sembro uno zombie al rallentatore sull’enorme ghiacciaio che anticipa la morena. Salto crepacci incurante dei pericoli, sembro anestetizzato. La cima è ormai lontana ma gli effetti sono in ogni parte del mio corpo. Intravedo le prime rocce, non ho nemmeno la forza di essere felice per avercela quasi fatta da quanto sono stanco. Il mio corpo non ce la fa quasi più. La mente però è ancora capace di farlo andare avanti, di farlo muovere come fosse un burattino attaccato a dei cavi sottilissimi composti di energia mentale. Appena i ramponi “gracchiano” sulle prime rocce granitiche, capisco che è l’ora di toglierli. Con movimenti molto lenti e con estrema fatica elimino il ghiaccio che li avvolge, me li sfilo e con un moschettone li attacco all’esterno dello zaino. Dopo un’altra ora su roccia, alle 07:30pm del 2 ottobre 2016 raggiungo il Campo Base dove il team che ha seguito tutta la logistica mi aspettava con il fiato sospeso. Tutti estremamente felici di rivedermi sano e salvo, il momento del mio arrivo si è consumato tra abbracci sinceri e parole “liberatorie” che uscivano come fiumi dalle bocche di tutti.

In serata ho saputo che nel tardo pomeriggio si era messa in moto la macchina dei soccorsi con una squadra che sarebbe partita alla mia ricerca già in nottata. Fortunatamente non è servita.

L’indomani abbiamo tutti ripreso il trekking di rientro che in cinque giorni tra montagne e valli, foreste e impetuosi fiumi ci ha riportati a Kathmandu, dove mi trovo ora. Una discesa che vale una vita intera. Un limite spostato in avanti. Un’esperienza unica che mi ha portato sull’ottava montagna più alta della Terra esattamente dodici mesi dopo l’importante traversata a nuoto di 50km nelle acque Africane dell’oceano Indiano.

Cercare i propri limiti, superarli e trovarmi faccia a faccia con la morte è la mia vita, il mio modo di vivere, il mio modo di crescere.

Alla prossima grande avventura,

Danilo.

 

Diario – Manaslu

Miei cari amici, ecco una nuova pagina di diario direttamente dall’ottava montagna più alta della Terra.

Purtroppo i vari problemi sui collegamenti satellitari mi stanno impedendo di aggiornarvi come vorrei, in modo più frequente e con delle foto capaci di descrivere al meglio questo straordinario ambiente, ma sto facendo il possibile credetemi!

In questi ultimi giorni passati, sono salito lungo il versante della montagna per due volte.
La prima volta ho raggiunto quota 5.700mt. dove ho piazzato Campo1 portando su una certa quantità di materiale necessario alla salita. Nella seconda, sono rimasto su più giorni portandomi fino a 6.400mt. a Campo2 dove ho passato la notte (passando per C1) e l’indomani sono salito ancora più in alto fino ai 6.900mt. di Campo3. Proprio a C3 ho piantato la mia seconda tenda (spostata da C2) con il materiale necessario per portarmi successivamente a quota 7.400mt. dove pianterò il mio Campo4 e da dove, la notte stessa, attaccherò la vetta del Manaslu a quota 8.163mt.

Il tratto che separa C1 da C2 è molto tecnico con tratti di ghiaccio verticali, enormi seracchi sospesi, attraversando insidiosi crepacci profondi centinaia di metri su instabili “scalette di alluminio”. A tutto questo va inevitabilmente aggiunto il carico portato sulla schiena con il materiale necessario per la mia salita. Fortunatamente questo tratto l’ho superato in una giornata di sole fantastica.
Da C2 a C3 il meteo è cambiato, il sole ha lasciato spazio alle nuvole grigie e quindi poca visibilità. La salita, costante, anche se non tecnica si è rivelata molto impegnativa in quanto accusavo la fatica dei due giorni precedenti, il carico che portavo sulla schiena e l’aumento della quota. Dopo varie ore ho raggiunto l’importante Campo3 nel quale ho passato una notte difficile a causa di una forte bufera di neve che ha travolto l’intero campo con impetuose raffiche di vento e un’abbondante nevicata, abbassando di molto le temperature. Il freddo che ho sopportato per tutta la notte non mi ha reso affatto la vita facile. La mattina seguente, subito dopo l’alba, ho deciso di scendere “velocemente” fino a Campo Base scongiurando di venir travolto da una valanga in quanto il rischio si era alzato in modo esponenziale con la nevicata della notte.

Ora mi trovo al BC dove mi sto rilassando consapevole di aver due tende con il materiale utile all’attacco alla vetta a C1 a 5.700mt. e C3 a 6.900mt.
Sto aspettando solo la “finestra” utile di meteo stabile e sereno per ripartire, risalendo la montagna fino in cima e rientrare. Purtroppo è da due giorni che quassù sta scaricando una grossa quantità di neve, giorno e notte grosse e rumorose valanghe si staccano tutt’attorno rompendo un silenzio quasi surreale. So che dovrò avere pazienza e so benissimo che è un gioco di nervi non così semplice da gestire ma sono venuto fin qui per giocarmi tutte le carte e così farò.

Come al solito vi ringrazio e vi mando un forte abbraccio,
Danilo.

Campo Base – Manaslu

Base Camp – 4.829 mt.

N 28*35’390″

E 084*35’560″

 

Sono passati ormai dieci giorni dall’ultima volta che vi ho aggiornati miei cari amici, ma prima di raccontarvi come li ho passati, vi voglio comunicare che mi sento bene sia fisicamente che psicologicamente e che l’altro ieri, nel tardo pomeriggio, con un meteo troppo clemente, ho finalmente raggiunto il Campo Base (BC) del Manaslu a 4.829 mt. di altitudine sul versante est con una vista spettacolare (solo in serata quando le nuvole hanno deciso di lasciare spazio al sereno per qualche minuto) sul Pinnacolo Est, punta rocciosa accanto all’affilata vetta del Manaslu.

Dopo quasi dodici ore su un fuoristrada attraverso strade pazzesche, fangose e con strapiombi vertiginosi da un lato e altissime pareti rocciose dall’altro, ho raggiunto il villaggio di Dharapani. Da questo punto, la mattina seguente ho iniziato il lungo ed impegnativo trekking che mi ha portato fin qui. Durante i primi tre giorni ho avuto parecchie difficoltà fisiche a causa di un forte virus influenzale il quale mi debilitato totalmente, mettendo così ulteriormente alla prova la mia resistenza.

Vomito, febbre alta, dolori in ogni parte del corpo, forti fitte allo stomaco, la testa che sembrava esplodere da un momento all’altro e per concludere, numerose scariche di diarrea. Privo di medicinale in quanto l’intera mia scorta era rimasta sui bidoni che avrei, solo successivamente, ritrovato al Campo Base. Ho stretto i denti, procedendo ad un ritmo molto lento. Accusavo ovviamente lo sbalzo di quota, il terreno era fangoso in un continuo salire e scendere dentro una foresta fittissima. Il maltempo lasciava di rado lo spazio a qualche sprazzo di sereno.

Di villaggio in villaggio ho “combattuto” questi miei problemi bevendo molta acqua, mangiando aglio e zenzero che trovavo lungo il percorso ed inoltre, un gran lavoro mentale di concentrazione mi ha aiutato a togliermi di dosso questa “rogna” alla fine del terzo giorno e di lì in poi, ho spinto come un treno attraversando il Larkya Pass a 5.160 mt. ad un ritmo molto sostenuto rispondendo così in modo eccellente all’elevata quota, continuando fino al raggiungimento del primo importante step di questa salita: il BC.

Ora mi trovo seduto all’interno della tenda da campo installata dall’agenzia che si occupa della gestione della mia logistica a Campo Base mentre dal cielo cade pioggia mista neve in un’umidità che entra, gelida, fin dentro le ossa e non solo, con questo meteo fatico a ricaricare le batterie della strumentazione elettronica che con il freddo è messa a dura prova. Resterò fermo al BC fino a domattina per migliorare l’acclimatamento. Calcolo di salire fino a C1 a 5.700 mt. domani, dove piazzerò la tenda e passerò due notti. Nel frattempo sto ingerendo svariati litri di liquidi, mi alimento al meglio e attendo la preghiera del Lama di fronte allo Stupa come buon augurio affinché questa Grande Montagna non mi trattenga per l’eternità.

Al Campo Base la situazione è quasi paradossale, svariate le spedizioni commerciali che hanno invaso la montagna quest’anno. Moltissimi cinesi e coreani oltre ad una numerosa spedizione internazionale. Si contano circa 200 persone compresi sherpa e guide. Qui il campo sono l’unico che saliró questa montagna da solo, senza guide, senza sherpa e senza bombole d’ossigeno. Motivo in più per decidere al meglio quando salire per evitare di trovarmi nel mezzo di una moltitudine di “non-alpinisti” armati di maschere attaccate a vistose bombole d’ossigeno trainati da forti sherpa carichi all’inverosimile.

Un pensiero è andato, con una preghiera ieri e andrà per tutta la salita, a quegli alpinisti morti nella tragedia del 2012 avvenuta proprio qui, sulla “Montagna dello Spirito”.

 

Un grandissimo saluto a tutti voi dal Base Camp del Manaslu,

Danilo

Kathmandu – Giorno 1

Eccomi nuovamente qui, davanti al mio amico fidato chiamato “computer” per scrivere questa prima pagina del nuovo diario di viaggio.
Come penso avrete letto o saputo, da qualche giorno è iniziata questa mia nuova avventura tutta in “salita” sull’ottava montagna più alta della Terra: il Manaslu (8.163mt.).

Il progetto nella sua totalità lo potete trovare ben descritto qui, sul mio sito, nella sezione dedicata.

Sono arrivato a Kathmandu da alcuni giorni. Ho approfittato di questo breve periodo in questa caotica ma splendida capitale, per rilassarmi, pregare e prepararmi mentalmente in vista dell’ascesa alla “grande montagna”.

Domani all’alba un fuoristrada mi lascerà, dopo circa 10/12 ore di viaggio, in uno sperduto villaggio arroccato tra verdi montagne ricoperte di fitta giungla.

Dopodomani inizierò il lungo trekking attraversando una delle zone più affascinanti ed impervie di tutto il Nepal. Attraverserò intere foreste, valli, montagne, seguendo i percorsi naturali costeggiando immensi canyon.

In sei giorni di cammino raggiungerò il Campo Base (BC) del Manaslu a quota 4.400 metri.

Da quel punto inizierà la difficile salita alpinistica verso l’affilata vetta. Una salita che mi terrà impegnato per oltre quaranta giorni. Salirò e scenderò la montagna per acclimatarmi al meglio e per portare su tutto il materiale necessario. Durante tutta l’ascesa mi dedicherò anche alla fotografia e alle riprese video, che poi mostrerò a tutti voi miei carissimi amici e grandi sostenitori.

Voglio però dedicare le fotografie allegate qui sotto, alla vita di Kathmandu, la vedo come una questione di rispetto verso questo straordinario Paese che tanto adoro e che tanto mi ha dato nel 2013. Quindi, per mia scelta, non sarò presente in queste foto, non ci sarà ne sport, ne alpinismo, ma vita… sguardi, momenti e lavori che fanno del Nepal uno dei Paesi più straordinari del nostro Pianeta. Vedetela come una sorta di mio “ringraziamento” personale verso questo Paese e la sua capitale.

Ora vi saluto tutti con un fortissimo abbraccio, cercherò di tenervi aggiornati nei prossimi giorni attraverso collegamenti satellitari.

Che gli Dei siano con me e che questa grande ed imponente montagna mi permetta di arrivare fin lassù, dove pochi osano e dove potrò ammirare la curvatura della Terra.

 

A presto,

Danilo

 

MANASLU: CALLEGARI SULLA ‘MONTAGNA DELLO SPIRITO’

KATHMANDU (NEPAL) – 2 settembre 2016. L’immagine di Danilo in preghiera in uno dei numerosi templi, un rito che si rinnova ogni volta che si trova ad affrontare una nuova avventura in questi paesi, annuncia la partenza per la sua nuova sfida, quella targata 2016: il Manaslu, 8.163 metri, ottava vetta al mondo per altezza è situata nel cuore della catena himalayana nel centro del Nepal, da solo, senza ossigeno e in completo stile alpino ma con la Protezione degli Dei.

Arrivato a Kathmandu il 28 agosto scorso, Danilo Callegari da sabato 3 settembre affronterà la prima parte: l’avvicinamento al Campo Base (4.400 mt) con un lungo trekking di circa 6 giorni attraverso foreste, valli incantante solcate da fiumi impetuosi e vertiginosi canyon.

Arrivato al Campo Base, il programma di Danilo è quello di montare 4 campi alti prima dell’attacco alla cima: Campo1 a 5.700 mt dopo una salita tra morene e cascate di ghiaccio (icefall); Campo2 a 6.400 mt, affrontando sempre zone impervie con tutte le insidie nascoste tra i crepacci e i pericolosi seracchi sospesi; Campo3 a quota 6.900 mt su una sorta di “sella nevosa”; Campo4 a 7.400 mt sulla “spalla della montagna” che precede la vetta. Da Campo4, ai limiti della famosa “zona della morte o death zone”, dove non esiste più modo e tempo per l’acclimatamento ma un’inesorabile deterioramento fisico e mentale, Callegari attaccherà subito la vetta (8.163 mt) partendo a notte fonda, per ridiscendere a Campo4 il giorno stesso.

Allenamenti, preparazione, concentrazione, professionalità e poi il via verso il cielo himalayano e verso la “Montagna dello Spirito”. Danilo Callegari, solo, insieme ai silenzi della montagna. Il Nepal come ‘stazione’ per prepararsi alle prossime imprese, ma anche scelta di vita per confrontarsi con una zona del mondo affascinante e ricca di storia.

Avere l’avventura nel DNA significa non fermarsi mai. Significa esplorare il mondo, i luoghi più inaccessibili, solo con le proprie forze, ma soprattutto esplorare se stessi. Questa è l’avventura secondo Danilo Callegari, friulano doc, 33 anni, avventuriero ed esperto di sport estremi. La montagna, che lui stesso definisce la più grande palestra di vita, è proprio la meta della sua ennesima avventura, Manaslu, che in sanscrito significa “Montagna dello Spirito”, è un gigante di ghiaccio, neve e roccia. Callegari affronterà questo ‘8000’ in solitaria,  veloce, leggero e in completo stile alpino senza l’ausilio dell’ossigeno supplementare. L’ennesimo appuntamento con l’estremo, alla base del quale ci sono due precise motivazioni, una personale e una specificatamente tecnica e di preparazione. “E’ una sorta di ‘richiamo’ verso queste altissime vette, un sentimento che parte dalla mia interiorità più profonda. La quasi necessità di salire verso il cielo” – spiega Danilo, che aggiunge poi come questa scalata sia propedeutica alla continuità e alla preparazione per la conclusione del grande progetto: “7SUMMITS SOLO PROJECT”.

Si tratta di un macro progetto iniziato nel 2011 che include 7 spedizioni in 7 continenti per raggiungere la cima delle 7 vette più alte unendo all’impresa alpinistica altre discipline outdoor estreme. Avventura allo stato puro, dove in ogni tappa l’asticella della sfida si alza ogni volta di più. L’ultima asticella superata si chiama “AfricaExtreme2015” dove Callegari ha nuotato per 50 km, corso 27 maratone in 27 giorni (per circa 1.150 km) per poi salire e scendere la vetta del Kilimanjaro in 20 ore e 56 minuti. Tutto documentato in un film imperdibile (trailer).

Ora, nella sua agenda da avventuriero, i prossimi obiettivi sono l’Antartide, quindi l’Oceania, il Nord America e l’Asia. Avventura è non fermarsi mai.

Danilo Callegari ha numeri ‘sportivi’ impressionanti, ma non è un highlander, è un uomo che vive il suo presente sfidandosi e sfidando, ma con assoluto rispetto, la Natura. Un uomo del presente che pone molta attenzione al mondo ‘social’ e che documenterà questa sua nuova avventura condividendola con tutti. Anche condividere può essere “avventura”.

MANASLU: CALLEGARI SULLA ‘MONTAGNA DELLO SPIRITO’

Pordenone, 15 luglio 2016 – Avere l’avventura nel DNA significa non fermarsi mai. Significa esplorare il mondo, i luoghi più inaccessibili, solo con le proprie forze, ma soprattutto esplorare se stessi. Questa è l’avventura secondo Danilo Callegari, friulano doc, 33 anni, avventuriero ed esperto di sport estremi. La montagna, che lui stesso definisce la più grande palestra di vita, è proprio la meta della sua ennesima avventura, quella targata 2016: il Manaslu, 8.163 metri, ottava vetta al mondo per altezza e situata nel cuore della catena himalayana nel centro del Nepal.

Manaslu, che in sancrito significa “Montagna dello Spirito”, è un gigante di ghiaccio, neve e roccia. Callegari affronterà questo ‘8000’ in solitaria, veloce, leggero e in completo stile alpino senza l’ausilio dell’ossigeno supplementare. L’ennesimo appuntamento con l’estremo, alla base del quale ci sono due precise motivazioni, una personale e una specificatamente tecnica e di preparazione. “E’ una sorta di ‘richiamo’ verso queste altissime vette, un sentimento che parte dalla mia interiorità più profonda. La quasi necessità di salire verso il cielo” – spiega Danilo, che aggiunge poi come questa scalata sia propedeutica alla continuità e alla preparazione per la conclusione del grande progetto: “7SUMMITSsoloProject”.

Si tratta di un macro progetto iniziato nel 2011 che include 7 spedizioni in 7 continenti per raggiungere la cima delle 7 vette più alte unendo all’impresa alpinistica altre discipline outdoor estreme. Avventura allo stato puro, dove in ogni tappa l’asticella della sfida si alza ogni volta di più. L’ultima asticella superata si chiama “AfricaExtreme2015” dove Callegari ha nuotato per 50 km, corso 27 maratone in 27 giorni (per circa 1.150 km) per poi salire e scendere la vetta del Kilimanjaro in 20 ore e 56 minuti. Tutto documentato in un film imperdibile (trailer).

Ora, nella sua agenda da avventuriero, i prossimi obbiettivi sono l’Antartide, nel 2017, quindi l’Oceania, il Nord America e l’Asia. Avventura è veramente non fermarsi mai.

Torniamo in Nepal, torniamo alle pendici del Manaslu. Allenamenti, preparazione, concentrazione, professionalità e poi il via verso il cielo himalyano e verso la vetta dello “Spirito”. Danilo Callegari, solo, insieme ai silenzi della montagna. Il Nepal come ‘stazione’ per prepararsi alle prossime imprese, ma anche scelta di vita per confrontarsi con una zona del mondo affascinante e ricca di storia e storie, come quella dei Tamang, popolo di montagna dai lineamenti mongoli, che sta perdendo il proprio passato e si aggrappa alle proprie montagne e alle loro tradizioni per difendere il presente e il futuro. Callegari vuole fermarsi in questa parte del mondo per condividere la realtà di questi popoli, ascoltare le loro storie e viverle con loro.

Danilo Callegari ha numeri ‘sportivi’ impressionanti, ma non è un highlander, è un uomo che vive il suo presente sfidandosi e sfidando, ma con assoluto rispetto, la Natura. Un uomo del presente che pone molta attenzione al mondo ‘social’ e che documenterà questa sua nuova avventura condividendola con tutti. Anche condividere può essere “avventura”.

KILIMANJARO – TRAVERSATA – VETTA – THE END

Quota massima raggiunta in metri – (vetta): 5.895
Dislivello complessivo sviluppato in metri: 8.300
Dislivello sviluppato in salita in metri: 4.000
Dislivello sviluppato in discesa in metri: 4.300
Tempo impiegato per l’intera traversata: 20h56m45s
Ora di raggiungimento della vetta: 17.26 (ora Tanzania)
Ora di arrivo al gate e chiusura di Africa Extreme: 02:30 (ora Tanzania)

Mi trovo ancora una volta davanti al mio pc intento a provare a scrivere quella che sarà l’ultima pagina di questa magica ed incredibile avventura.

L’ultima volta ci siamo salutati alle fine delle 27 maratone e del mio arrivo nella cittadina di Moschi, alle falde del Kilimanjaro.
I successivi otto giorni, che hanno anticipato la mia salita alla montagna più alta d’Africa, li ho passati cercando di recuperare più energie possibili, leccandomi le ferite e nell’intento di sistemare una serie di problemi fisici derivati dalla dura prova di corsa.
Nel frattempo però, ho seguito anche le questioni burocratiche ed organizzative di quella che sarebbe stata la mia salita e in particolar modo, quella che avrebbero intrapreso Andrea e Lorenzo (cameraman e fotografo). Un mio arrivo in cima avrebbe necessitato di scatti fotografici e riprese video di alto livello. Dopo due importanti incontri con coloro che sarebbero stati le loro guide, i relativi portatori, i Ranger che gestiscono l’area e i responsabili dell’organizzazione “eTripAfrica”, siamo riusciti a mettere insieme tutti i tasselli necessari affinchè venissero tutelati durante l’intera salita (classica in cinque giorni), sviluppando quindi un ascensione a quattro step. A quel punto avevano tutto il necessario, dalle guide, ai portatori, al cuoco. Aspetti assolutamente necessari per dare anche a me la giusta tranquillità pensandoli lassù. Ci siamo salutati con una decisa e sincera stretta di mano, rimbalzandoci il pensiero a cinque giorni in là, alla base della cima.
Mi sono quindi ritrovato solo, dentro una stanza di hotel, tra i miei pensieri e i miei momenti di grande concentrazione. Per cinque giorni ho meditato, pregato, riflettuto e rivalutato più e più volte l’equipaggiamento che mi sarei portato con me. Decidere di fare una salita senza campi intermedi e tutta d’un fiato ad una grande montagna, implica prendersi degli inevitabili rischi legati alla scelta dei materiali: se porti troppo, rischi sul peso e sul tempo; se porti troppo poco, rischi di subire un cambio del meteo (e a certe quote è bene non scherzare troppo!).
Io comunque ho optato per la seconda ipotesi!
E così arrivò anche per me il fatidico giorno di salire, provando in questo modo, a chiudere l’intero progetto partito da Zanzibar circa due mesi prima.

Ho deciso di farmi portare alla base della via di salita il giorno prima del mio inizio, volendo passare la notte proprio lì, da dove sarei partito la mattina seguente, entrando nell’ambiente, assaporando i profumi e i rumori di questa grande ed imponente montagna. Alle prime luci dell’alba del 15 novembre, dopo aver firmato una serie di permessi speciali, è iniziata questa mia terza ed ultima prova: la traversata integrale del Kilimanjaro salendo dal versante nord-est, scendendo dal versante sud-ovest, passando per la cima.
Un tiepido sole ha fatto capolino di lì a poco tra la fitta vegetazione di una giungla che da subito mi ha dato il benvenuto. La cima era visibile, pulita, spettacolare e lontana, maledettamente lontana. Fisicamente mi sentivo in forma, mentalmente carico, iniziando così a macinare chilometri e metri di dislivello senza accusare particolari problemi. Ho dedicato del tempo per fare delle foto e dei brevi video (in quanto i ragazzi mi aspettavano a campo 4 a ridosso della vetta). Ho così superato campo 1, campo 2 e campo 3 arrivando in ottimo stato di salute a campo 4, arroccato a quota 4.800mt. dove, con grande commozione, ho riabbracciato Andrea, Lorenzo e tutti i ragazzi di supporto.
Tra i vari permessi che ho firmato c’era l’obbligo che mi sottoponessi ad una visita medica a campo 4 e così è stato. Risultato: pressione 130/80, frequenza 107, saturazione 94%… insomma potevo ritenermi soddisfatto. Pochi minuti dopo ho ripreso la marcia per conto mio su un terreno ripido e franoso, mentre Andrea e Lorenzo con le loro guide sono partiti poco dopo seguendo la loro via di salita, al loro ritmo, avendo sulla schiena gli “attrezzi del mestiere”.

Dopo circa 700 metri da quando ho lasciato campo 4 ho iniziato a percepire i primi segni legati al rapido sviluppo della quota associati ad una certa stanchezza fisica. Ho così ritarato il ritmo aumentando la concentrazione. Quando ci si trova lassù è spesso facile cadere nell’errore di “strafare” per voler raggiungere al più presto la vetta, errore che mi sarebbe potuto costare caro. Esperienza, preparazione e istinto mi hanno sicuramente aiutato ad evitare potenziali problemi.
Mi sono fatto superare da Andrea, Lorenzo e le guide in modo tale che raggiungessero la vetta prima del mio arrivo così da poter riprendermi in quell’atto finale.

……. di lì a poco i miei occhi hanno cominciato ad inumidirsi riempiendosi, passo dopo passo, di lacrime di pura gioia e forte commozione per la vista di “quel” cartello che a quota 5.895 metri, segna il punto più alto di tutta l’Africa.
Attimi passati inginocchiato, toccando quel cartello, che per me non rappresentava un semplice arrivo in cima, per me significava il coronamento di un sogno iniziato quasi due anni prima. Su quel cartello mi sono visto passare tutti i sacrifici fatti, le innumerevoli rinunce, le fatiche, i rapporti rovinati, i dolori, i sogni infranti… le lacrime sono state lo sfogo naturale di tutta la carica emotiva portata fino a quel momento. In un flash sono tornato alle calde ed insidiose acqua dell’Oceano Indiano, alle faticose maratone, ai lividi sul corpo, alle vesciche, alle tendiniti, alle infinite volte che mi sono ripetuto: “Danilo cazzo non mollare!!”, alla volontà di dimostrare prima di tutto a me stesso che i sogni si possono realmente realizzare. E poi ancora un forte pensiero è andato ai miei due cari genitori senza i quali, lì non ci sarei di certo mai arrivato.
Non è facile descrive ciò che si prova in certi momenti, molto particolari e troppo intimi con se stessi. Chiudo con i bellissimi ricordi degli abbracci forti e sinceri tra me, Andrea, Lorenzo e le guide. Attimi che resteranno indelebili nella mia memoria.

Minacciose nuvole grigie hanno avvolto la vetta impedendomi così di gustare quell’incredibile vista, da molti descritta come unica e mozzafiato.
Pochi minuti più tardi ho iniziato la mia discesa, lunga, interminabile, al buio e sotto una pioggia torrenziale che non mi avrebbe più abbandonato fino all’arrivo al gate (punto di fine della discesa). Come me, anche gli altri ragazzi si sono visti nelle mie stesse condizioni.
Ricordo bene gli ultimi 1.500 metri di dislivello che per tre ore mi hanno visto impegnato nel cuore di una fitta giungla, con innumerevoli farfalle notturne che, attratte dalla luce frontale, mi si infilavano dappertutto, in occhi, naso, orecchie, giù per il collo… la pioggia che aveva trasformato il sentiero fangoso in un torrente e per finire in bellezza, è rispuntata la tendinite al ginocchio destro, trasformando quest’ultima parte di discesa in un calvario.
Alle ore 02:30 locali, ho raggiunto il gate che segna la fine della via alla base della monatagna e dopo alcune foto di rito, un mezzo ci ha riportati tutti e tre in hotel. Dopo una merita e calda doccia, alle ore 04:00 ho steso il mio corpo sul letto, cadendo nel sonno più profondo.
In questo modo si è magicamente conclusa: AFRICA EXTREME 2015.

Sento il piacere, prima che il dovere, di ringraziare le migliaia di persone che mi hanno seguito, aiutato, sostenuto durante tutto il periodo di preparazione e durante questa avventura.
Primi tra tutti ringrazio i miei genitori, due persone speciali che hanno da sempre creduto in me.
Un importantissimo ringraziamento a tutti sponsor che hanno visto in me lo specchio dei loro stessi valori investendo parte delle loro energie.
Ringrazio i miei amici più fidati, presenti ad ogni eventuale richiesta.
Ringrazio la “speciale” squadra che mi ha accompagnato e seguito lungo tutta l’avventura.
Ringrazio l’intera organizzazione eTripAfrica e ViaggiaconCarlo per il supporto logistico.
Ringrazio tutti i media, televisioni, radio e giornali che hanno deciso di trasmettere questa mia avventura.
Ringrazio di cuore Federica di NewCol per il gran lavoro di comunicazione svolto e per aver “assorbito” parte di tutte le problematiche che ho avuto in questi ultimi 12 mesi.
Ringrazio tutte le persone che ho avuto il piacere di incontrare durante questa mia permanenza in Tanzania con i loro sorrisi, le loro strette di mano e i loro balli.

Ed infine ringrazio tutti voi miei carissimi amici e sostenitori per gli innumerevoli like e messaggi di incoraggiamento che mai mi avete fatto mancare.

Arrivederci alla prossima grande avventura.

Con immenso affetto,
Danilo

 

AFRICA EXTREME 2015: MISSIONE COMPIUTA

DaniloKiliTop-copia

Kilimanjaro Summit, Tanzania – 16 novembre. Si è conclusa con successo stanotte alle 2:30 circa (00:30 ora italiana) Africa Extreme 2015, l’ultima grande sfida di Danilo Callegari, conclusasi con la salita e discesa dell’immenso Kilimanjaro in 20h56m45s no stop, con un dislivello complessivo di 8.300 m (4.000D+/4.300D-).

Si chiude quindi la terza tappa del progetto 7 SUMMITS SOLO PROJECT, l’ipotesi di 7 spedizioni in 7 continenti per toccare la cima delle sette vette più alte abbinando altre discipline outdoor estreme. Tutto è iniziato nel 2011 con il SOUTH AMERICA EXTREME, dove Callegari ha percorso 4500 km in bicicletta, attraversato due deserti, percorso 300 km in kayak sul lago Titicaca, volato in parapendio sulla costa cilena, da Lima a Santiago del Cile in 4 mesi per scalare in solitaria e in stile alpino il Cerro Aconcagua (6.962 m) per la diretta dei Polacchi. Nel 2012 è stata la volta di EUROPE EXTREME con l’ascesa in solitaria e in stile alpino dell’Elbrus (5.642 m) e rientro a Pordenone, città in cui vive, in bicicletta, in inverno, per un totale di 4000 km.

Con AFRICA EXTREME 2015, l’alpinista-esploratore friulano ha affrontato in condizioni estreme uno dei continenti più selvaggi dell’intero pianeta, passando dall’umido delle acque oceaniche ai caldi torridi delle distese centrali africane, fino ai ghiacci perenni del Kilimanjaro.

L’impresa è iniziata i primi di ottobre con 50 km di nuoto continuativo nell’Oceano Indiano, da Zanzibar fino a Bagamoyo, sulla costa della Tanzania, per proseguire di corsa con 27 maratone in 27 giorni per i 1.150 chilometri di savana, foreste e altipiani che lo separavano dall’approdo sulle spiagge della Tanzania fino alle falde del Kilimanjaro. Millecentocinquanta chilometri di caldo torrido, piogge torrenziali e fango, lungo il Manyara National Park e il Serengeti fino al tanto atteso Kilimanjaro National Park, base di partenza dell’ultimo step che ha visto Callegari salire e scendere il “Kibo” (5.895 m.s.l.m) in meno di 24 ore no stop senza campi intermedi.

“Un emozione fortissima mi ha sorpreso alla vista del cartello di cima del Kilimanjaro” racconta a caldo Danilo Callegari, “forse tra le più grandi che abbia mai provato. Ho pianto a dirotto di gioia e felicità, mentre ripercorrevo in modo incondizionato tutto quello che ho passato in questi quasi due anni di preparazione, di allenamento, di sacrifici e di complicazioni. Mi sono rivisto, in un flashback, la mia uscita dall’Oceano e tutte le mie 27 maratone”. Nel suo audio messaggio, strozzato ancora dall’emozione, prosegue: “Qualche acciacco fisico me lo sono portato dietro dalle maratone, un dolore all’anca e una tendinite al ginocchio, ma il fisico ha tenuto bene grazie anche alle iniziali condizioni metereologiche buone che mi hanno accompagnato fino a campo 4. Poi il tempo è girato a pioggia mista neve, impedendomi di godere il panorama dalla cima e accompagnandomi per tutta la lunga discesa, soprattutto verso la fine, nella giungla. Ce l’ho fatta e questo è il giusto coronamento di tutto quello che ho affrontato prima.”